Da tempo, soprattutto sotto l’impulso dato da Papa Francesco con l’esortazione apostolica Evangelii gaudium (2013), si ripete che la Chiesa dovrebbe assumere un nuovo volto, più missionario. L’esigenza nasce dalla constatazione che il cristianesimo, almeno nelle società tecnologicamente più sviluppate, non appare più attrattivo; i sintomi in genere rilevati sono due: la notevole diminuzione dei partecipanti alle liturgie domenicali, l’allontanamento dei giovani dalla fede.
Il fenomeno giustamente preoccupa e provoca tentativi di ricerca delle ragioni. La preoccupazione stabilisce confronti con il passato; la ricerca delle ragioni provoca le comunità cristiane, sempre più risicate, a domandarsi che cosa si possa/debba fare per arginare il fenomeno e recuperare terreno, quasi si fosse di fronte a un conflitto.
Se Papa Francesco invita ad assumere una dimensione missionaria, non è per riconquistare chi si è allontanato, bensì per far riscoprire l’identità della Chiesa, che il concilio Vaticano II ha descritto come missionaria, cioè manifestazione dell’uscita da sé di Dio. Il termine “uscita” è ampiamente usato da Papa Bergoglio, ma ci si accorge quanta fatica si incontri a dargli un contenuto preciso. Va messo in conto che le abitudini costituiscono a volte un freno alla realizzazione della missione: si rischia di vivere come se il mondo non fosse cambiato e si continua a proporre pratiche tipiche della cristianità, cioè di una condizione sociale e culturale nella quale il costume sociale era pervaso dal cattolicesimo. Si ripete che il mondo è cambiato, ma si immagina che sia rimasto lo stesso.
Il problema che si pone è: in quale direzione ci si dovrebbe muovere per realizzare l’identità missionaria della Chiesa? Le indicazioni fondamentali ci vengono ancora dal Concilio, che, concluso nel 1965, mantiene una notevole attualità. Tre le indicazioni una pare sia da privilegiare: quella espressa nel n. 8 della Costituzione dogmatica sulla Chiesa. Qui si presenta quale dovrebbe essere lo stile di esistenza della Chiesa, sul modello di Gesù Cristo: «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo […] per noi “da ricco che era si fece povero” (2 Cor 8, 9); così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria della terra, bensì per diffondere, anche con il suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione». Si aggiunge poi, con una citazione di Sant’Agostino (De civitate Dei) che la Chiesa «prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio, annunziando la passione e la morte del Signore finché egli venga». La dimensione pellegrinante diventa così il fattore che permette di introdurre la descrizione della Chiesa come popolo di Dio (n. 9), attraverso una analogia con il popolo dell’antica alleanza; si tratta di un popolo in cammino che ha una funzione messianica: entrare nella storia degli uomini, pur trascendendo i tempi e i confini dei popoli, per essere sacramento visibile dell’unità salvifica per tutti. Si profila prioritario il tema della riconciliazione; questa suppone lo stile indicato nella seconda parte del n. 8, che evoca il messianismo non trionfalistico di Gesù.
Ciò comporta una modalità di attuare la missione che faccia percepire la “compagnia” della Chiesa, soprattutto con i più deboli.
Per illustrare questa affermazione, si suggeriscono qui alcune pratiche che la Chiesa, e in essa le comunità cristiane potrebbero/dovrebbero assumere:
- Condivisione di esperienze e di difficoltà, che permetta di sperimentare relazioni “corte” e quindi di percepire che la Chiesa è anche un’esperienza di vicinanza “umana”. In tal senso l’esperienza delle comunità di base costituisce un esemplare, a fronte di una Chiesa sempre più burocratizzata e nella quale l’ufficialità occupa sempre più posto. La descrizione della Chiesa come comunione rischia di suonare retorica se non porta a vivere la comunicazione. Peraltro una Chiesa “burocratizzata” non potrà essere percepita come una Chiesa solidale, bensì come una Signora che devolve beni ai bisognosi. L’indicazione non vuole suggerire prassi che producono chiusure, le quali, come frequentemente ricorda Papa Francesco, generano povertà ‘spirituali’, ma solo richiamare la necessità di un’autentica vita comunitaria.
- Crescita della corresponsabilità: una Chiesa clericale ha già mostrato di non essere in grado di incidere sulla realtà. In questo senso il richiamo alla sinodalità appare come un provvidenziale appello. Le nostre Chiese mostrano nello stesso tempo di assumere modelli burocratici e di favorire i processi di delega:la preoccupazione per l’organizzazione rischia di far pensare che per tutti i problemi ci sono gruppi o agenzie specializzate e quindi che a questi tocca farsi carico delle situazioni. Non ci stiamo avviando verso una nuova forma di clericalismo, contro il quale Papa Bergoglio mette continuamente in guardia?
- Educazione all’autonomia e alla libertà nel pensare e nell’agire. Il rischio di consegnarsi a nuovi leader che sarebbero le guide sicure non è assente dalle Chiese. Il fenomeno si avvicina a quello dei nuovi movimenti religiosi, criticati proprio per questo. Avere più fiducia della libertà nella Chiesa lascia intendere che le persone sono considerate come adulte. È vero che il pericolo maggiore è dato dalla soggettivizzazione della fede (e dei costumi) e dalle molteplici appartenenze che ogni persona vive. Ma proprio per questo si dovrebbe far maturare il senso critico, in modo tale che le persone sappiano discernere e, discernendo, diventare capaci di vivere la riconciliazione pur nella (o forse grazie alla) franchezza.
- Annuncio della fede prima della morale: annunciare che Dio vuole persone umane adulte e responsabili, e per questo si è compromesso nella storia, è la condizione per poter far comprendere il senso delle norme morali, che diversamente apparirebbero come imposizioni.
- Costruzione di una nuova “apologetica”, cioè di illustrazione e difesa della fede cristiana. Questa “apologetica” deve: a) tener conto della gerarchia delle verità, come Papa Francesco, facendo eco al concilio Vaticano II, ha invitato a fare nella esortazione apostolica Evangelii gaudium; b) riscoprire la capacità di interrogare criticamente, aiutando le persone ad andare oltre i luoghi comuni, per porsi domande sulle questioni ultime della vita (nascita, morte, amore, sofferenza), con le quali tutti prima o poi si scontrano; c) far sorgere le domande prima di dare le risposte: le risposte preconfezionate non intercettano la vita; d) mostrare che Cristo, non la Chiesa, è il salvatore; e) motivare sempre quel che si propone, sia dal punto di vista teologico che antropologico.